LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE,
SE ASCOLTI LA VOCE DELL'OGGETTO"
pagina creata il 12 gennaio 2008 aggiornata il 25 gennaio 2009

 

 

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Uno dei caratteri che meglio caratterizzano l'oggetto del desiderio in quanto oggetto infinito è la variabilità.

Dal punto di vista della struttura, la variabilità è la caratteristica qualitativa dell'infinito, che meglio si presta alla presa intuitiva. Anche se l'infinito continua a essere un oggetto scabroso. Gli antichi greci, per esempio, non seppero concepire dell'infinito neppure quella che propongo come la caratteristica più intuitiva: la variabilità. Quindi non seppero farsi alcuna idea dell'infinito stesso. La ragione fu che ragionavano esclusivamente in termini di grandezze. Non seppero rappresentarsi l'infinito come aggregato (o molteplicità) di elementi. Concepivano l'infinito come grandezza. (Sulla distinzione tra aggregato e grandezza, la prima una nozione qualitativa, la seconda quantitativa, di grande valore esplicativo per la storia della matematica, rimando al secondo capitolo - Le concezioni dell'antichità - del classico lavoro di Carl Benjamin Boyer, Storia del calcolo e il suo sviluppo concettuale (1949), a cura di A. Guerraggio, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 15-62.)

Ma una grandezza infinita - rifletteva il greco - non è misurabile, perché ogni unità di misura finita dà sempre lo stesso risultato: infinito. Quindi, a rigore, l'infinito non è una grandezza. Infatti, per i greci antichi, che erano rigorosi ma poco intuitivi, l'infinito in atto non esisteva. L'infinito subiva la stessa sorte dei rapporti incommensurabili, per esempio quello tra diagonale e lato del quadrato. Tali rapporti non esistevano in quanto numeri. (Gli unici numeri esistenti nella Grecia antica erano gli interi positivi e i razionali). Analogamente, per i greci antichi l'infinito in atto era un rapporto alogos, irrazionale, quindi non esisteva. Per loro esisteva solo l'infinito potenziale, cioè una grandezza (misurabile e) finita, che può essere sì indefinitamente accresciuta, ma a patto che rimanga sempre finita, cioè misurabile. Insomma, i greci antichi "perdevano (sic) due piccioni con una fava". Per voler essere troppo rigorosi, perdevano sia la nozione di infinito in atto sia quella di variabilità. Nel mio linguaggio, il greco antico non sapeva pensare né l'oggetto, che è infinito, né gli oggetti, che dell'infinito rappresentano le infinite varianti. A causa dell'esigenza di eccessivo rigore, i greci antichi rimasero intrappolati in uno sterile logocentrismo. (Una trappola, quella della "filosofia come scienza rigorosa", che intrappola anche alcuni filosofi moderni, specie di marca fenomenologica). Perciò rimase loro interdetta sia la scienza del moto, che presuppone l'infinita variabilità delle velocità istantanee, sia la scienza delle forme viventi, che presuppone la selezione delle specie nel campo della variabilità biologica. Galilei e Darwin non erano greci. Ed entrambi seppero trattare la variabilità del loro oggetto di ricerca, pur non disponendo dell'attrezzatura intellettuale adeguata per farlo. Galilei non disponeva del calcolo infinitesimale per determinare gli integrali e le derivate del moto: velocità e accelerazioni istantanee. Darwin non disponeva della genetica - per altro già scoperta da Mendel, ma a lui ignota - per far discendere la variabilità dei fenotipi dalla combinatoria dei genotipi. Due geni che ci seppero fare con l'oggetto, lavorando con la propria ignoranza e mettendola a frutto.

La voce è un oggetto del desiderio. L'affermazione non è banale. Per esempio, non la si trova in Freud. Per il riconoscimento della voce come oggetto del desiderio bisogna aspettare Lacan. Mi chiedo se per questo non dobbiamo ringraziare la sua formazione fenomenologica da vecchio psichiatra - formazione che Freud non poteva avere, perché il fondatore della fenomenologia sedeva accanto a lui sui banchi dei seminari viennesi di Von Brentano. Sul tema della voce come oggetto a, che sospende il soggetto tra responsabilità e godimento, rimando al già citato (a propoposito di Lacan fenomenologo) Bernard Baas, De la Chose à l'objet, Peeters Vrin, Louvain 1998, in particolare i §§ La voix, entre responsabilité et jouissance (pp. 206-213) e L'incorporation de la voix (pp. 213-222), se non altro come testimonianza del fatto che un filosofo, se si bagna nel Lete della psicanalisi, riesce a tenere un discorso sull'oggetto. (Non altrettanto felice mi sembra, invece, J.A. Miller, quando definisce la voce come ciò che non si può dire).

Dal mio punto di vista, tendenzialmente scientifico, trascuro le considerazioni "soggettive" (dall'importanza superegoica della "voce della coscienza" alle performace artistiche della vocalità, per cui rimando al libro di Pigozzi ) e aggiungo, per il suo valore minimale, un'osservazione "oggettiva" da esperto dell'analisi della varianza, come la si chiama in statistica. Tra tutti gli oggetti del desiderio la voce è quello che meglio esemplifica la variabilità infinita dell'oggetto. In particolare si possono mettere in evidenza due tipi di variabilità dell'oggetto voce: intrinseca ed estrinseca.

La variabilità intrinseca rende conto della diversa modulazione della voce, per cui modulazioni diverse corrispondono a sentimenti diversi. La variabilità estrinseca rende conto dei timbri di voce, diversi da individuo a individuo. Giustamente Pigozzi fa notare che Giulietta riconosce Romeo al buio solo dalla voce, perché la voce di Romeo è solo di Romeo. Il godimento di un mio paziente da piccolo era di andare alla Messa per indovinare da come recitava le preghiere chi stava dietro di lui, senza vederlo. Da grande diventò analista.

Nella seduta analitica la voce diventa rappresentante di quello che Lacan chiamava oggetto perduto e che Freud, più appropriatamente, considerava l'oggetto da ritrovare (Cfr. per esempio Die Verneinung, in Sigmund Freud Gesammelte Werke, vol. 14, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 14). Nell'esile dialogo psicanalitico la voce dell'analizzante va alla ricerca della voce dell'analista. Durante il percorso può sperimentare alcuni tratti dell'oggetto del proprio desiderio, concernente magari un oggetto diverso dalla voce. Il transfert è anche transfert d'oggetto.

In comune con gli altri oggetti del desiderio la voce ha la proprietà, che è posseduta in massimo grado dall'oggetto sguardo, di riempire lo spazio soggettivo. Lo spazio dove abita, senza padroneggiarlo, il soggetto, ora diventa lo spazio della sonorità.

Che l'oggetto si estenda a tutto lo spazio, ecco un'altra dimensione geometrica che mancava agli antichi Greci (e ai moderni umanisti), i quali non avrebbero potuto, quindi, inventare la psicanalisi. La geometria greca era, infatti, una geometria delle figure ferme nello spazio. Non era geometria dello spazio o, meglio, degli spazi. Per loro esisteva un solo spazio, quello piatto euclideo. Non esistevano spazi non euclidei. Lo spazio era unico e assoluto, tanto che erroneamente Kant - un greco di Germania - fece dello spazio una categoria a priori dello spirito. Per esempio, anche quando i Greci trattavano le congruenze, era solo per sovrapporre figure equivalenti ad altre. Non era mai per trasformare, magari identicamente, uno spazio in un altro.

Il discorso torna qui alla variabilità dell'infinito e alla necessità di elaborare strumenti per trattarla, per esempio per trattare le diverse geometrie dello spazio sonoro. Domande intriganti: lo spazio sonoro è piatto? è curvo? è a curvatura costante? positiva o negativa? E' inevitabile confrontare tra loro i diversi spazi sonori. Come? Come si sa da Galilei (escluso) in poi, i matematici hanno abbozzato il discorso delle "funzioni", le quali ad ogni punto di uno spazio associano uno e un solo elemento di un altro spazio. Quello delle funzioni, intese come forme di corrispondenza, che oggi si preferisce chiamare applicazioni (di uno spazio in un altro), potrebbe essere uno strumento utile allo psicanalista per trattare la variabilità delle formazioni dell'inconscio - in questo caso gli spazi sonori - e la loro intercambiabilità. Ne ho accennato al seminario di Asciano. (vedi "sapere dello spazio", in particolare la lezione seconda e terza).

In questo sito, considerando l'oggetto come modello - presentazione o realizzazione - dell'infinito, con la possibilità di passare da un modello all'altro tramite opportune applicazioni (ancora da definire), tento di abbozzare un discorso scientifico in psicanalisi. Questo progetto suscita diffidenze per vari e tradizionali motivi: la scienza è un discorso astratto, mentre la psicanalisi è un discorso concreto, la scienza è un discorso generale mentre la psicanalisi è un discorso particolare (individuale), la scienza è un discorso quantitativo, mentre la psicanalisi è un discorso qualitativo, la scienza è un discorso oggettivo, mentre la psicanalisi è un discorso soggettivo, e via con simili luoghi comuni. Tutti giusti, ma poco fecondi. Oggi viviamo in un clima di diffusa antiscientificità. "La scienza non pensa", dice il fenomenologo. "La scienza va tenuta sotto controllo, perché potenzialmente disumana", dice il Vaticano. La religione umanistica si allea volentieri alla religione rivelata nell'orrore per il "sapere nel reale", come lo definisce Lacan per gli italiani (Cfr. J. Lacan, Note italienne (1974), in Autre écrits, Seuil, Paris 2001, p. 308). Ma, per esperienza, dall'antiscientificità si passa facilmente all'antipsicanalisi. La resistenza alla scienza è ormai un vasto gioco cooperativo (a somma positiva) di moda anche tra gli psicanalisti. La strategia comune è di tipo teologico: imporre la supremazia della verità sul sapere, dove spesso la verità è quella dottrinaria, divulgata dai portavoce ufficiali dell'ortodossia (da Ratzinger ai grandi sacerdoti dei vari psicanalismi).

Perciò Laura Pigozzi mostra coraggio a fare uscire di questi tempi il suo libro di psicanalisi A nuda voce. Vocalità, inconscio, sessualità, presso Antigone Edizioni, Torino. Coraggio unito a simpatica modestia, che la dice lunga sull'autoconsapevolezza del personaggio. Inviandomi una copia dell'introduzione del suo libro, Laura sente il bisogno di avvertirmi, quasi scusandosi, che il suo riferimento teorico è all'arte - innanzitutto quella del canto, di cui è maestra - non alla scienza.

Bene, dico io. Tutto mi va bene: arte, scienza, persino teologia, purché sia un discorso che mette il sapere prima dell'essere. Da Cartesio in poi, nella modernità vale il primato del sapere sull'essere, dell'epistemologia sull'ontologia. Quello dell'artista è un primato particolare, quello del saperci fare. Il pittore non è pittore, ma sa fare qualcosa, quadri per esempio. Analogamente, l'analista non è analista, ma sa fare qualcosa, analisi per esempio. Allora, per far vedere come in questa prospettiva pratica (epistemica) il discorso di Pigozzi sia più nuovo - e più concreto - del vecchio discorso ontologico - più astratto - mi piace accostare le due introduzioni: la sua a A nuda voce e quella di Derrida a La voce e il fenomeno. Da una parte un discorso concreto, con un soggetto e un oggetto, che giocano insieme nel godimento, dall'altra un discorso senza oggetto e con un soggetto esangue, dove la voce diventa la greca phoné, il "fenomeno" corrispondente all'antico logos, che si incarna come soffio vitale nella carne trascendentale (sic) della riduzione fenomenologica.

Per completezza e per un certo gusto polemico dovrei ricordare che non mancano filosofi, anche italiani, che elevano a criterio di scientificità del discorso la mancanza di oggetto. Mi riferisco al nostro Giorgio Agamben, che negli anni Settanta vagheggiava una filosofia come nuova scienza critica del soggetto senza oggetto: "Poiché, se nelle scienze dell’uomo soggetto e oggetto necessariamente si identificano, allora l’idea di una scienza senza oggetto non è un paradosso scherzoso, ma il compito forse più serio che, nel nostro tempo, resta affidato al pensiero. Ciò che il perpetuo aguzzar coltelli di una metodologia che non ha più nulla da tagliare cerca oggi sempre più spesso di dissimulare, e, cioè, la coscienza che l’oggetto che doveva essere appreso ha eluso, alla fine, la conoscenza, è rivendicato, invece, dalla critica come il proprio carattere specifico. L’illuminazione profana, cui essa rivolge la sua intenzione più profonda, non possiede il suo oggetto. Come ogni autentica quête, la quête della critica non consiste nel ritrovare il proprio oggetto, ma nell’assicurare le condizioni della sua inaccessibilità" (G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977), Einaudi, Torino 1993, p. XII-XIII). Sì, oggetto inaccessibile del fenomenologo e oggetto perduto dello psicanalista, sono artefatti del vecchio logocentrismo che accede a e ritrova solo se stesso, il perenne logos, o bavardage. Ben diverso l'oggetto ritrovato (wiedergefunden) di Freud, che alle mie orecchie risuona come la voce dell'infinito cartesiano (libero dalla necessità di chiamarlo dio).

A Laura riservo solo una piccola e amorevole critica - più amorevole che critica. Il titolo del primo capitolo del suo libro è "La voce è l'inconscio". Certo, non dice "L'inconscio è la voce", che sarebbe banalmente errato. Tuttavia, un'ambiguità resta. Mi risuona nell'orecchio l'aforisma derridiano: "La voce è la coscienza" (J. Derrida, La voce e il fenomeno (1967), a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1968. p. 116) Non ho letto il libro. Immagino che Pigozzi voglia tradurre a modo suo l'aforisma di Lacan: "Nell'inconscio [...] ça parle" (J. Lacan, La psychanalyse et son enseignement (1957), in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 437). Per parlare ci vuole una voce? Non è detto. Il corpo parla perché è parlante, cioè immerso da sempre nel linguaggio. Ma la voce non serve solo a parlare, cioè a esercitare il linguaggio, ma anche a godere - è la tesi di Pigozzi. Tuttavia, mi sembra opportuno segnalare un potenziale pericolo di regresso prescientifico, giusto per evitarlo.

E' tipico dello junghismo confondere l'inconscio con le sue formazioni: il sogno, innanzitutto. Questa trappola è da evitare. E' la trappola che portò Jung agli archetipi e Lacan, che fu più junghiano che freudiano, all'archetipo di tutti gli archetipi: il logocentrismo. (Cfr. il suo principe royale du Logos, in J. Lacan, L'instance de la lettre dans l'inconscient, in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 519. Il logos è l'archetipo di Lacan.) Volendo salvare la leggerezza del discorso freudiano, magari sollevandolo da altri appesantimenti - di tipo medico - che Freud non seppe evitare, bisogna evitare ogni fondamentalismo e ogni reificazione dell'inconscio.

Giustamente Freud non definì l'inconscio, perchè quella di inconscio è una nozione non concettualizzabile - esattamente come "coscienza", "vita", "felicità", "libertà". Lo fa notare Hans Blumenberg nel suo saggio uscito postumo: Die Theorie der Unbegrifflichkeit (Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2007, p. 42). Se la felicità fosse concettualizzabile, argomenta argutamente Blumenberg, tutti vorrebbero la stessa cosa e si cadrebbe nell'infelice lotta di tutti contro tutti. La follia di voler definire tutto con un concetto si chiama "Positivismo". Vogliamo dirci positivisti?

Nella fattispecie, l'inconscio è l'improbabile interazione - un evento a probabilità nulla, come l'estrazione del numero 1234567890 dal campo dei numeri interi - tra soggetto finito e oggetto infinito. Un nonnulla che si realizza nel godimento. Se accade che l'inconscio mi si comunichi attraverso il godimento della voce, gli presterò l'attenzione massima che mi è consentita - poco più che nulla - cioè l'attenzione ugualmente fluttuante (gleichschwebende Aufmerksamkeit), anche questa inventata da Freud. Anche lei non concettuale, ma in un certo senso "oggettuale". Porge l'orecchio all'oggetto.

Come?

Sul godimento extrafallico

Esiste un godimento non regolato dal fallo. Lo si può chiamare godimento extrafallico. (Lo chiamo così e non godimento dell’Altro o Altro godimento per ridurre l’inflazione di alterità, che in tutta la dottrina lacaniana maschera la dimensione dell’oggetto). Dove si colloca tale godimento, se non esiste l’organo con la funzione specifica di produrre un godimento non fallico? È forse un godimento extracorporeo?
La risposta a questa seconda domanda è categoricamente negativa. Poiché il fallo è simbolico, quindi extracorporeo (cfr. J. Lacan, La troisième, Roma 1974 per il godimento hors-corps), consegue che

il godimento extrafallico è corporeo.

Ma dove si localizza? ripeto.

Il godimento extrafallico è il prodotto di una pratica del corpo.

Lacan lo localizza nella pratica mistica.
Pigozzi lo localizza nella pratica del canto.
Sciacchitano lo localizza nella pratica matematica.

Le ragioni di Sciacchitano sono pratiche e teoriche.
Ragioni pratiche. I matematici, non diversamente dai mistici, non chiedono aiuto allo psicanalista, anche quando sono gravemente disturbati. Evidentemente il loro disturbo non disturba il godimento extrafallico.
Ragioni teoriche. La matematica non è una. Dieudonné, uno dei fondatori del gruppo Bourbaki, conta 27 matematiche diverse. In effetti, senza arrivare a questo estremo, grosso modo le matematiche sono due: algebra e geometria. Sono matematiche concettualmente e praticamente differenti, anche se molta geometria si può algebrizzare e molta algebra geometrizzare. Anzi, gran parte del godimento matematico è dimostrare un teorema geometrico con strumenti algebrici o, viceversa, un teorema algebrico con considerazioni geometriche, superando gli steccati che convenzionalmente dividono la matematica. Il caso paradigmatico di questo godimento non convenzionale è rappresentato dai teoremi di analisi complessa dimostrati con i metodi di geometria differenziale, per esempio il teorema integrale di Cauchy, dimostrato come caso particolare del teorema del rotore di Green.

Il godimento extrafallico si potrebbe chiamare irregolare o illegale nel senso che non è regolato da una regola o da una legge o da un algoritmo, esprimibili con un numero finito di termini. Un modello matematico di godimento “irregolare” è rappresentato dai cosiddetti numeri trascendenti, che non sono soluzioni di equazioni algebriche, quindi non sono individuabili attraverso una legge ben determinata. I numeri trascendenti sono anche un esempio di scientificità senza leggi. Costituiscono un modello di pensiero scientifico non riducibile alla legalità e alla prevedibilità, cioè allo sterotipo epistemologico veteropositivista delle "leggi di natura". (Anche la biologia, dopo Darwin, è un esempio di scienza della natura senza leggi di natura).

Quesito per i filosofi della matematica. Perché conosciamo pochi numeri “irregolari”, praticamente solo due classi (quelli che coinvolgono pi greco e quelli che coinvolgono e), quando con il suo metodo diagonale Cantor ha dimostrato che i numeri “irregolari” sono infinitamente più numerosi dei numeri “regolari”?

Per la via dei numeri irregolari il godimento matematico si affianca al godimento del canto. Il cosiddetto “timbro blu” della voce – una felice invenzione non solo terminologica di Laura, ricalcata sulla più famosa “nota blu”– può essere considerato una combinazione di frequenze non descrivibile con un numero finito di termini. Il timbro blu è la phoné (femminile) che sfugge al logos (maschile). E' una proprietà sfuggente, direbbe l'intuizionista Brouwer. E' l'infinito che abita il corpo femminile. Certamente gran parte del fascino del “timbro blu” deriva anche dal fatto che non è generabile mediante dispositivi meccanici, ma sembra legato in modo essenziale al corpo umano, in particolare alla voce femminile, precisamente alla voce in quanto oggetto femminile. Sarebbe in gioco una componente “selvaggia”, non riconducibile né al logos né alla phonè del padrone. Sarebbe in gioco un’irregolarità, ma anche una libertà  pericolosa, tradizionalmente attribuita alle donne dalle culture maschiliste, in genere a forte componente religiosa, che considerano le donne ingovernabili (cioè, animali impolitici).

Se supponiamo che il godimento perverso sia il godimento prodotto da un oggetto finito – tipicamente il feticcio – allora il godimento extrafallico è certamente non perverso. Probabilmente per questa ragione il godimento extrafallico sembra appannaggio delle donne. Questo è evidente nel godimento del mistico e del canto. Per quanto riguarda il godimento matematico, si suppone che le donne, seppure non meno matematicamente dotate degli uomini, lo abbandonino presto, passando a pratiche che riguardano maggiormente il rapporto corporeo con l’altro. Non voglio con questo dire che la pratica matematica non sia corporea. Provate a fare matematica senza “fare” esercizi. Non ci riuscirete anche se siete mediamente intelligenti. Gli esercizi di matematica sono la necessaria di ginnastica mentale per praticare un po’ di matematica.

Il riferimento al corpo è essenziale nel trattare del godimento extrafallico. Essendo una pratica soggettiva, ma non essendoci organi deputati ad essa, il godimento extrafallico sembra annidarsi alla frontiera del corpo, ai suoi punti di condensazione (o omega-accumulazione), che nella prima lezione di Asciano ho chiamato punti fallici.

A questo punto il discorso deve continuare affrontando il tema della sublimazione.


Chi mi scrive una pagina sulla sublimazione?


Infatti, la sublimazione si sostanzia principalmente, ma non solo, di godimento extrafallico, e sfocia nella questione posta da Laura della sessualità dell’oggetto – non solo  del corpo – e di come il soggetto riesce a cavarsela nel gestirla.

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